STORIE DI PERDITA E MEMORIA
- cattiveproduzioni
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Updated: 6 days ago
Rievochiamo, registriamo, ricostruiamo con i registi di Caino e Animali Senza Dio

Cosa succede quando la perdita si intreccia con il bisogno di documentare, ricreare o preservare un legame ormai spezzato? Come cambia il nostro rapporto con i ricordi quando la tecnologia si inserisce tra le trame di un dolore intimo?
In Caino e Animali Senza Dio, corti distribuiti da Cattive e diretti rispettivamente da Angelo Giordano e Lorenzo Gonnelli, troviamo questi interrogativi. In Caino, Angelo ricostruisce artificialmente la voce del fratello, tentando di tornare ad avere un dialogo interrotto dal tempo. L’intelligenza artificiale gli offre un’illusione di contatto, ma anche un’opportunità: confessare i sensi di colpa che lo tormentano. Il film si interroga, attraverso il filtro della tecnologia, su quanto la memoria possa essere alterata, riscritta o persino restituita artificialmente. In Animali Senza Dio, su una spiaggia desolata, la protagonista è alle prese con un compito: trasportare un cadavere fino a un porcile. Ogni passo sulla sabbia diventa un atto di fatica e di resistenza, mentre la sua videocamera cattura la scena. Il film racconta un rito intimo, un ultimo gesto verso un corpo che non può più parlare ma che continua a esercitare un peso emotivo e simbolico su di lei.
Oggi, in questo incontro con i registi, affronteremo le tematiche legate alla perdita, alla memoria e all'uso della tecnologia come strumento di elaborazione.

Caino e Animali Senza Dio trattano temi profondi e delicati come la perdita, la memoria e il legame tra passato e presente, utilizzando estetiche visive distintive e vari dispositivi narrativi. Cosa vi ha spinto a esplorare queste storie? E in che modo le scelte stilistiche e le modalità di messa in scena hanno influenzato la narrazione, o viceversa?
L. Gonnelli: La storia è nata, durante il viaggio di ritorno da un lavoro video su cui stavo lavorando, incentrato sul fine vita. Sentivo il bisogno di affrontare questo tema, ma non volevo farlo con un approccio documentaristico. Piuttosto, volevo restituirne tutta la complessità emotiva ed etica attraverso il genere, esplorando il peso della perdita e il gesto d’amore che vi si cela dietro.
A livello pratico, il budget ridotto ha imposto delle scelte precise: le riprese sono state fatte in più fasi, il che, paradossalmente, è diventato un vantaggio. Mi ha permesso di analizzare il materiale e aggiustare il tiro in corso d’opera. Inizialmente, volevo mantenere uno sguardo oggettivo, distaccato, senza giudizi sulle azioni della protagonista. Ma quando ho visto il pre-montato, ho capito che mancava qualcosa: il suo punto di vista. È qui che è subentrato l’uso del cellulare nella seconda fase di riprese. Ho pensato che fosse il mezzo più immediato per lei, qualcosa che potesse usare spontaneamente per raccontare il rapporto con quel corpo, registrando tutto come se fosse un diario visivo. In questo modo, il dispositivo narrativo ha preso forma proprio a partire dalle necessità del film, intrecciandosi in modo organico con la storia stessa.
A. Giordano: Il cortometraggio è nato durante la residenza artistica Nouvelle Bug, incentrata su forme cinematografiche sperimentali attraverso le nuove tecnologie (Machinima, Intelligenza artificiale, Fotogrammetria). Nel mio progetto iniziale volevo includere un dialogo tra due bambini, ma non avendo attori a disposizione, ho pensato di utilizzare voci in intelligenza artificiale. C’è solo un problema, i generatori di voci non hanno bambini tra i modelli. Casualmente, durante quei giorni ho ritrovato una piccola camera digitale che utilizzavamo io e mio fratello da bambini per riprendere storie buffe e sgangherate. Tali storie erano ancora conservate lì. A quel punto ho isolato la voce di mio fratello presente nei video e l’ho campionata attraverso il programma ElevenLabs. Completato questo processo, riascoltando quel bambino che un tempo conoscevo, mi sono detto: “Questo è il corto, questa è la mia occasione per elaborare le responsabilità e i pesi che mi porto dietro come fratello”. Per me infatti Caino è quasi un documentario: i pensieri che espongo, i sogni che racconto, la storia incompleta, tutto ciò che si vede è reale. L’utilizzo delle diverse tecniche di narrazione è un po’ venuto da sé. Con le immagini di archivio ho voluto trasportare immediatamente nella dimensione del ricordo, alla spensieratezza dei bambini. Con le riprese in webcam, ho voluto interrompere questa dimensione idilliaca e raccontare il presente, la realtà dei fatti, questo atto di amore che nel profondo risulta anche un po’ egoistico. Infine, l’uso delle immagini generate in IA per completare la storia che io e mio fratello avevamo lasciato in sospeso, mi è sembrato necessario proprio per allinearmi con il linguaggio del mio “interlocutore”. D’altronde non sto parlando ad un fantasma, ma ad una macchina.

L'atto di riprendere, girare e registrare può diventare un luogo di elaborazione. Nei vostri cortometraggi, ci sono due registi: voi e i protagonisti delle vostre storie. In Caino, i livelli di metanarrazione si sovrappongono in maniera evidente, essendo il regista anche "interprete" della propria esperienza, mentre in Animali Senza Dio, la protagonista affronta una battaglia complessa e personale, che non corrisponde a un'esperienza diretta del regista. In che modo questa “doppia regia” ha avuto un impatto sulla vostra ricerca e sul vostro lavoro?
L. Gonnelli: Come dicevo prima, il cambio di registro d’immagine è stato necessario per creare i due livelli di narrazione del corto. Per accentuare ulteriormente questa differenza, abbiamo lavorato molto sul color grading, esaltando l’emotività delle riprese fatte con il telefono. In quei momenti, le immagini sono volutamente più calde. Durante le riprese, abbiamo dato alla protagonista la libertà di scegliere cosa riprendere e come farlo, lasciando che fosse lei a dettare i tempi. Volevo che il mio intervento fosse minimo, per non influenzare troppo il processo e mantenere un senso di autenticità.
Nell’ultima scena, in cui siamo entrambi presenti, abbiamo girato in un’unica ripresa, senza stacchi. L’idea era quella di improvvisare un dialogo senza script, cercando di esplorare in modo spontaneo le motivazioni che potevano spingere i due personaggi a un gesto simile. Questo approccio serviva a rendere la recitazione più naturale e a dare allo spettatore la sensazione di assistere a una conversazione intima e reale.
A. Giordano: Quando ti guardi allo specchio, non puoi mentire a te stesso, per questo riprendermi con la webcam e diventare a tutti gli effetti il protagonista del corto è stata una necessità per impormi una narrazione sincera, a tratti umiliante. Mettersi in prima persona in un lavoro artistico può essere una bella scusa per dare un’immagine distorta ed esaltata agli altri, ma allo stesso tempo può essere un’occasione per mettere a nudo le proprie debolezze e i propri errori e fare in modo che qualcuno si riveda in questi. Parlando di doppia regia invece, il secondo regista è mio fratello, che ha sicuramente catturato le immagini più belle, e che ha messo a nudo la propria anima senza doverla raccontare come faccio io. Rivedendo quelle immagini, non potevo fare altro che mettere in dubbio tutti gli anni che ho dedicato al cinema, e tutte le sovrastrutture che mi sono imposto per essere un regista migliore.
Nei vostri cortometraggi, viene esplorato il modo in cui cerchiamo di conservare la memoria. Se doveste scegliere un frame che conserva il senso più profondo del vostro film, quale sarebbe e perché?
L. Gonnelli: Se dovessi scegliere un frame che racchiude il senso del corto, sarebbe quello in cui la ragazza si riprende sulla spiaggia mentre abbraccia il cadavere. È un momento che segna il primo cambio di prospettiva, passando dalla camera al cellulare. In quei pochi secondi viene rivelato il legame tra la ragazza e quel corpo, e la freddezza costruita fino a quel momento crolla. È il punto in cui l’elaborazione della perdita si manifesta pienamente, senza più distacco, nella sua forma più intima.

A. Giordano: Forse il frame dell’ultimo tramonto. La carrellata dei tramonti è nata un po’ casualmente, senza uno scopo preciso. Il primo cut del corto, compreso di immagini generate, è stato completato in una notte. Realizzandolo in questo stato di dormiveglia e redbull non mi rendevo conto di quel che stavo combinando, ma non appena ho concluso le generazioni video che completano “Il castello dei fantasmi”, ovvero la storia che io e mio fratello abbiamo lasciato in sospeso, ho sentito di volermi trattenere in quella dimensione, di non lasciare andare quella breve illusione. Ho quindi generato il video di un tramonto, poi un altro, poi un altro ancora, finché non mi sono detto: “Basta, torniamo alla realtà”.

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